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Giuseppe Nardi Pittore

La pittura di Giuseppe Nardi: un tuffo felice nell'armonia del mondo

 

L’appuntamento l’avevamo a Palazzo Grassi. Era forse il luogo più adatto per  parlare di Nardi e della sua pittura: un luogo di contatti d’Arte e di antinomie anche dure. Quando c’incontrammo, salimmo le scale per avviarci nel salone delle opere di pittura, entrati, gli feci una domanda: “Quale di queste opere preferisce?” Nardi posò lo sguardo sull’opera “Stati d’Animo” di Boccioni.

Naturalmente gli chiesi il perché di questa scelta. Lui rispose “Ho scelto questa opera per l’ armonia del colore, non per il soggetto che rappresenta; dico questo perché nella mia pittura il soggetto è sempre un pretesto”.

Andammo in un’altra ala della mostra, egli si soffermò su un Kandinskij del 1912: quadro di avvio dell’astrazione; Nardi disse: “Sembra un’opera di Chagall. Del resto, sono Russi tutti e due. Quel che mi colpisce è quella grande macchia nera, il nero potrebbe essere la negazione della pittura, invece no, per me quel nero è tutto il quadro”.

Vedevo Nardi che tra tutte queste opere si sentiva in paradiso. Davanti al piccolo autoritratto di Gauguin del 1902, disse: “ Questo sì sapeva dipingere”.

Gli feci un’altra domanda: “ Ma quale corrente di pittura lei ama?”. “Amo tutta la buona pittura purché rispecchi l’armonia, la luce e la verità”.

Ci sedemmo al bar di Palazzo Grassi a parlare con maggior tranquillità. Ero incuriosito dal concetto di “armonia” che Nardi sfoderava, come leitmotiv del suo credo artistico. Ma volli partire dall’inizio: “Quando lei ha cominciato a dipingere? Quali sono stati i suoi maestri?” Fu allora che scoprii qualcosa di incredibile. Un pittore come lui, così sapiente, cioè pronto a cogliere tutti i barlumi raffinatissimi dell’armonia cromatica, non aveva avuto maestri tranne la sua sensibilità.

“Ho cominciato a dipingere a dodici anni, con i colori che mi mandò mia mamma dall’Argentina. Mio padre, parrucchiere, mi avviò prestissimo al lavoro. A sedici anni presi la responsabilità diretta del negozio. Qualcuno mi spinse a partecipare al concorso ex tempore a Zero Branco: era 1951. Dipinsi il quadro, poi misi la tela distesa per terra, e vi spruzzai dell’acqua ragia: ottenni così un effetto sfumato, un po’ strano”. “E allora?” “Allora, vinsi il primo premio. Mi pare buffo; al mio primo concorso, il primo successo”.

Man mano che Nardi parlava, capivo che il segreto della sua pittura era dentro di lui: cioè affondava nella sua sensibilità primaria. La sua storia era tutta interiore. I fatti esterni, alla fine,  contavano poco o nulla. Nardi non era quel che si dice un pittore da plein air. Forse non era nemmeno (come pur lo si definisce ancora oggi) un impressionista. “Impressionista io? Può anche essere. E’ un’etichetta  come altre. Tutto quel che ho dipinto è nato nella mia foresta”.

Quale sia questa “foresta”, lui cerca di spiegarlo con toni semplici e pacati. Dice: “Per me la visione è un pretesto: uno spunto di partenza. Tutto è già dentro; e io butto sulla tela quel che ho dentro. Non è possibile dipingere altri mondi, anche nella scienza tutto alla fine è una riscoperta di quel che c’è già.

Io guardo a quel che si nasconde all’interno di me. Cerco anzitutto di capire come sono fatto. Poi quel che viene fuori è quasi il succo di me stesso”.

“Ma l’armonia? Vuole dire che la pittura è come la riscoperta del nostro Io ?”

“L’armonia è dovunque: dentro e fuori. Si tratta di tradurla secondo la propria sensibilità, cioè secondo la propria struttura organica … Lei capisce perché a me può piacere, come abbiamo visto poco fa, Boccioni o Kandinskij o Gauguin, o magari Picasso. So che ognuno ha una sua armonia, anche se so che soltanto un artista vero riesce ad esprimerla interamente. Rispetto ogni modo di dipingere e ogni opinione sulla pittura. Quando parlo di armonia, intendo la parte migliore di noi stessi.” “Armonia come ordine biologico?” “Sì e no. Io diffido dell’ordine, o almeno del cosiddetto ordine: spesso nasconde monotonia, meccanicità, programmazione. L’armonia per me è l’ordine del creato e delle cose, cercare di esprimere quel che c’è di buono in noi stessi: si può anche dire l’equilibrio delle cose”.

La mia interruzione, a questo punto, è stata drastica: “Lei allora fa coincidere la bellezza con la bontà? Vuol dire, in altre parole, che deve esserci un fondo etico nell’arte?” “Credo che l’armonia nell’arte rispecchi la parte buona dell’uomo. Vorrei spiegarmi meglio: la pittura deve riflettere la bellezza della natura, e questa bellezza a sua volta non può che riflettere l’Essere superiore che ci ha creati. Questa almeno, è la mia opinione.

Potrei dire che anche l’arte è un dono; e sta a noi usarlo con equilibrio”.

Vediamo dunque come Nardi riesce a far coincidere la sua concezione etica della pittura con la fenomenicità di un’arte storicamente veneta. Mi pare anzitutto che qualcosa delle teorie neo-platoniche, da cui si è nutrita fin dal quattrocento la pittura veneta, giri attorno alle idee che Nardi ha della pittura. L’arte coglie le schegge dell’iperuranio in cui il Demiurgo ha riposto i concetti paralleli di Bellezza, Bontà e Verità. L’uomo non può che captare, appunto, i riflessi della perfezione suprema. In mezzo c’è la natura: e qui spiritualità e sensualità quasi si conciliano. Nardi è veneto in quanto punta all’armonia del mondo. Questa armonia è basata essenzialmente sul colore. Nei lunghi discorsi che abbiamo avuto a Palazzo Grassi e altrove, mai Nardi ha parlato di ritmo grafico; semmai ha parlato di musica. “L’architettura del dipinto – mi ha confidato – è data dal colore”. Il centro di tutto è il colore. Colore, secondo la concezione veneta, è espressione di una sensualità panica: gioia di vedere ma anche gioia di sentire in senso lato, comprendente appunto tutti i sensi. Non ci si deve meravigliare di questa equazione tra colore e musica. Nella cultura veneta tutto nasce dalla fluidità della percezione fenomenica del mondo. Pittura, musica, poesia e la stessa architettura, lo stesso modo di “vivere la città”: ogni aspetto dell’espressione umana parte dalla simbiosi della natura.

Palladio arriva ad inserire il candido cubo della sua villa ideale nel fermentare della verzura proprio perché riesce a conciliare senso e ragione, istinto e intelletto. Prevale ovviamente l’effusione lirica, cioè l’estro, l’invenzione estemporanea; passano in subordine il “metodo” fiorentino, la logica speculativa, la struttura della forma, l’analisi del reale. Venezia stessa, come forma urbana, è un topos-àtopus: luogo non luogo, immagine dello spirito, entità sempre disponibile ai giochi della fantasia. Partendo da qui si capisce meglio il senso "dell’armonia” di qui parla Nardi. Si tratta di una concezione unitaria del mondo: qualcosa che lega ogni esperienza e la rende compatta. Il frammento viene inglobato nell’organicità dell’uomo.

Il colore di Nardi - si potrebbe dire - è tonale: risponde cioè all’impostazione della grande pittura veneta. Tonalismo significa accordo, ovvero armonia. La gamma su cui spesso insiste Nardi è quella delle tinte calde: paesaggi quindi dai gialli alle ocre, ai rossi. Altre volte l’armonia viene ottenuta con le nuances dei verdi vegetali, legati agli azzurri; l’impianto cromatico è quello di Giorgione.

Ma ogni musica ha bisogno anche e soprattutto del contrappunto. Ecco quindi gli squilli che si alzano: non stonature, o comunque forature timbriche. Tutto deve armonizzarsi, come nelle Quattro stagioni di Vivaldi, toni caldi o freddi, note alte o basse. La visione, come l’ascolto di una musica, diventa unitaria. L’occhio abbraccia  tutte le gradazioni, le variazioni, le trasparenze, le sovrapposizioni, gli incontri-scontri: l’immagine, che pure appariva frammentata, si avvia a una sua globale unità. Questo è importante. Insiste a dire Nardi. “Il colore è la parte più viva dell’Anima”. E l’Anima è spiritualità e rispecchia la personalità dell’individuo. Gli estremi finiscono per toccarsi. C’è qualche quadro (lo si può vedere chiaramente nella serie delle riproduzioni seguenti questo scritto) che appare come un gioco perfetto di specchi: l’architettura delle forme (alberi o case) si staglia nella sua nitidezza. Distinguiamo gli scarti di profondità prospettica; talora vediamo l’orizzonte. E’ qui che prevale il senso della struttura. Ma anche in questi quadri, che diremmo più “naturalistici”, è sempre il colore che disegna la forma. In altri quadri domina invece l’intrico. Tutto vibra, tutto trema, tutto pare sfaldarsi. Non distinguiamo più le forme degli alberi o delle case; i contorni degli oggetti svaniscono.

Quando ci sembra di essere presi dallo smarrimento, ecco che troviamo il filo conduttore: è il colore. Esso gioca come un velo policromo che si fa aria, atmosfera impalpabile, soffio, alito. Ed è come se scendessimo all’interno e scoprissimo la bellezza segreta dell’invisibile. Il colore è cosi: un’armonia che incanta

Non sappiamo spiegarcelo: esso coincide con la vita stessa. Nardi mi ripete a bassa voce: “Il colore è natura”.

Poiché natura è illusione, cioè ribaltamento della versione sul piano della fantasia, si potrebbe spiegare il “meccanismo” che porta Nardi a questa sorta di magia del colore. Ma la parte tecnica, cioè le strumentazioni del dipingere, interessano fino a un certo punto. Diciamo che Nardi parte dalla luce: cioè da un fondo bianco.

“Il bianco mi serve - dice - per sfruttare meglio le trasparenze”. E’ il momento in cui l’artista delinea l’architettura generale. Ma il quadro è già nella testa. L’artista ha già individuato, in questa fase, il punto focale della composizione. I particolari arrivano in un secondo tempo, la partenza può essere un albero, una casa o magari un vaso. Tutto finirà per ruotare attorno a questo motivo di base. Nardi procede per accostamenti, per analogie. Ogni particolare, come s’è detto, deve ”tenere”. I punti di riferimento creano variazioni e improvvisazioni, luci e ombre. Il tessuto è quello del colore: guai a smagliarlo, a disunirlo. I quadri più riusciti, per Nardi, sono quelli in cui il colore nella sua apparente frammentazione si slega dal bisogno di  rappresentare le cose: diventa puro flusso sensitivo, quindi spinta istintuale  verso quella che - lo diciamo per l’ennesima volta - non può essere che l’armonia di fondo.

Questo procedimento potrebbe portare alla mera astrazione. E’ un pericolo che anche Nardi, come molti pittori, deve essersi posto. Astrazione intesa come formalismo estetizzante: quindi, come puro compiacimento.

Si sa che una buona parte della pittura cosiddetta informale è caduta in queste secche. Ma i critici più avveduti come (Arcangeli e Marchiori) hanno sempre inteso far prevalere il fondo di allusività naturale, anche quando verso la fine degli anni Cinquanta pareva che fosse la materia in sé ad evidenziarsi.

Nardi ha seguito la “via veneta” del colore: come Tancredi, in fondo, che alla fine non è molto lontano da un dalla Zorza. Il colore è qualcosa di simbolicamente legato alla vita: ha sempre e comunque una sua connotazione allusiva. Ciò che conta è orchestrare sinfonicamente tutte le gamme, come un pianista alla tastiera: modulare ogni nota estraendone il massimo di espressività. Allora si sentirà il “nervosismo” di alcuni quadri come la “serenità” di altri. Le dita del pittore fremono nel disporre ritmicamente il colore. Ecco perché paradossalmente, i quadri più “astratti” (diciamo così) di Nardi risultano alla fine i più “figurativi”: dietro la pelle del colore si intravede la miriade cellulare di una vita che pulsa dal di sotto, si espande, quasi esplode. Nardi ammette: “ E’ impossibile non solo per me, ma per ogni artista. I momenti della vita sono irripetibili, legati come sono a uno stato d’animo, ad una sensazione, ad una ‘emozione.

Diciamo quindi, in sintesi: un pittore come Nardi si pone fuori dalla storia proprio perché obbedisce agli impulsi più segreti del suo “Io”. Inutile incasellarlo in una delle tante etichette. Non è impressionista, cosi come non è informale; non è realista come non è espressionista. Semmai, l’unica matrice - come s’è detto - è una coltura veneta del colore, che diventa per lui “categoria dello spirito”. Tutto nasce spontaneamente; e tutto si risolve in una unità armonica.

E’ anche questa la ragione per cui Nardi è ammirato da tutti; Nardi va giudicato come gli artisti antichi. Anche se egli appartiene al suo tempo, la struttura della pittura ha qualcosa che esce dall’effimero. L’ordito dei segni cromatici che s’intrecciano e s’intersecano, scattano e s’ammorbidiscono, è l’ordito che sottende (per fare un paragone veneto) ai felici passaggi di luce d’un Tiepolo. Libertà estrema, quasi abbandono all’istinto; ma insieme, perfetta padronanza. I colori si aggregano come i segni: devono essere spontanei, senza sforzo alcuno, estremamente correlati. Mi ha sorpreso, all’inizio, l’indicazione di Nardi (su mia insistente richiesta) del quadro che riteneva più riuscito, e intitolato “Fantasia”: un 50x60 del 1994. Curioso: è un quadro apparentemente sbilanciato, con vuoto in basso. Ma, a ben vedere, ci si accorge (e me ne sono accorto sia pur lentamente) che si tratta quasi di un’ascesa verso la conquista del colore. Le macchie, tutte marezzate e screziate, cioè mai piatte, vibrano intensamente nel mondo ascensionale. I sottilissimi grigi giocano con i bruni, li incalzano, li spingono su; e tutto freme, si agita alla ricerca dell’unità. Poi, più in alto, il colore si sfalda come in un muro antico, diventa persino rugoso, graffiato. Alla fine la policromia si fa festosa, a chiazze irregolari, ma sempre ben bilanciate… La creatività di Nardi va oltre alla realtà, creando un’armonia del colore che diventa musica, essenza di uno stato d’animo che, nella gioia dionisiaca del colore, ha momenti d’intensa commozione.

Forse è questo che oggi chiediamo alla pittura: ridarci l’emozione verginale di un contatto filtrato con la natura. Non si tratta, in verità, di “memoria delle cose”, ma di qualcosa che vive e vibra in noi. Ma per percepire tutto ciò occorre togliersi dai luoghi comuni del nostro panorama visivo. Riassaporare qualcosa di aurorale: una fuga dell’animo che vola verso l’aria, quasi ubriacandosi nella luce.

Torniamo con Nardi, a dare un’occhiata a Palazzo Grassi dalla quale siamo partiti. La storia di un secolo di pittura è davanti a noi. La Biennale celebra i suoi riti. Ma l’impressione generale (mia, almeno) è quella di un tuffo oscuro all’interno di un tormentato inconscio collettivo. Jean Clair ha voluto darci uno squarcio cupo, persino funereo, di un’arte che sta tentando disperatamente, dopo tanti spericolati avanguardismi, di ritornare alle cose: alla figura umana. Lui, Nardi, guarda solo alla pittura. Mi ripete: “Io cerco disperatamente l’armonia, il soggetto il più delle volte è un pretesto”.

Che l’uomo del Duemila abbia perduto il senso dell’armonia del mondo? Gli “stati d’animo” di Boccioni si sono tramutati in momenti d’inquietudine, di angoscia. Ricordo le parole di Nardi sul fondo morale della pittura, (“Impossibile non credere in Dio: la natura ci indica di per sé un essere superiore che l’ha creata”). Mi chiedo dove sia la speranza per il domani che gli uomini stanno cercando. E mi par di rispondere che essa non possa che risiedere in una pittura come quella di Nardi: una pittura che forse certi saloni della critica giudicheranno “fuori dal tempo”, ma che certamente è “dentro nella natura”. Cioè dentro l’essenza dell’uomo.

Paolo  Rizzi